di Roberto Gallone*
È bello ritrovare uno dei maestri della cinema italiano dopo dieci anni di assenza e, Io e te, l’ultima sorprendente fatica di Bernardo Bertolucci, appare come un’opera di rinascita ispirata dalla malattia che negli ultimi anni lo ha strappato al cinema e al suo pubblico.
Due giovani attori esordienti, estremamente convincenti per la naturalezza e la spontaneità con cui si muovono sulla scena, in un’impolverata e buia cantina di un quartiere bene di Roma, affrontano il loro personalissimo microcosmo fatto di solitudini e incomprensioni, una location non dissimile dalla casa di Parigi del ‘68 del suo ultimo film. Ma la tana dei due giovani non è come in The Dreamers un nascondiglio partorito dal quieto, noioso ed edonistico benessere della privilegiata borghesia parigina, ma un luogo buio, sotterraneo, carico di ingombranti ammassi che il passato vomita e rigetta, un luogo affollato e riempito come lo è la mente di Lorenzo, sociopatico adolescente, che si immerge nel suo sua musica assordante. È un luogo sporco, polveroso, circondato da mobili corrosi dai tarli e dal tempo, divorati come lo è, la sorellastra Olivia, dall’eroina, dalla solitudine e dal suo silenzio assordante. La cantina di Lorenzo e Olivia è un luogo vuoto-pieno, da riempire e da svuotare. È uno scenario in cui non ci sono i “sognatori” con i grandi ideali, ma due anime affrante, spente e distaccate dal mondo che li circonda, che portano dentro il caos, un cancro li divora lentamente fino a renderli estranei a sé stessi.
Si riconosce in Io e Te, liberamente ispirato dall’omonimo romanzo di Nicola Ammaniti, il leitmotiv delle opere di Bertolucci, quell’isolamento condiviso che diventa per i suoi personaggi un’occasione per farli (ri)conoscere, esplorare a vicenda e che li prepara ad un rientro consapevole alla “normale” (“normale vuol dire niente” dice Lorenzo nella prima scena del film) quotidianità. Ma in Io e te c’è anche la tenerezza che si manifesta nel suo splendore nel lungo e caldo abbraccio, a cui i due ragazzi disperatamente si aggrappano. Un abbraccio che ha la forza di riaccendere l’interruttore delle rispettive esistenze e di rimetterli, chissà per quanto, in carreggiata, pronti ad affrontare quel mondo esterno che ai loro occhi appare più buio e sporco della loro rassicurante cantina.
Bernardo Bertolucci continua ad essere uno di quei pochi registi che sa raccontare la vita attraverso lo sguardo incantato delle giovani generazioni sapendone cogliere l’onnipotenza e la fragilità che da sempre le caratterizza, e lo fa con un sguardo autentico, essenziale e di rara bellezza.
*psicologo ed esperto di cinema
Premi e riconoscimenti: “Nastro d’argento” migliore opera, “Globo d’oro” migliore musica, sette nomination ai “David di Donatello”.
Regia Bernardo Bertolucci Soggetto Nicolò Ammaniti Sceneggiatura Bernardo Bertolucci, Nicolò Ammaniti, Umberto Contarello e Francesca Marciano