Corsivo pubblicato su il Giornale di Napoli di oggi
Molte piazze hanno dei nomi che sono stati scelti più o meno a caso. Garibaldi, Vittorio Emanuele, Mercadante potrebbero essere anche in altri luoghi. Piazza del Plebiscito no. Si chiama così perché in quello slargo si sarebbero dovute radunare grandi folle, “oceaniche” le definì D’Annunzio nel periodo delle dittature. C’è quindi una ragione storica molto semplice per cui l’adunanza rappresenta il senso stesso di quel luogo, per cui quello spazio comincia a pulsare solo quando è pieno di anime. Dire, come fa il sovrintendente, che una piazza che si chiama del Plebiscito non debba radunare grandi folle è come dire che il latte non vada conservato in frigo. È vero, il ruolo del sovrintendente è quello di preservare. Ma è proprio questo il punto. Il burocrate fa il suo mestiere mettendo un veto sulle pietre, senza pensare cosa comporti questo per la città, senza pensare che vantaggi possa avere per la vita della gente uno spazio vuoto, un non luogo, seppure bellissimo. Se la tesi di Giorgio Cozzolino è questa allora possiamo cambiare anche nome a quello spazio, dimenticare cosa ha rappresentato nella storia e cosa rappresenta adesso. Del resto, già in passato la piazza è stata violentata: dal 1963 al 1994 è stata un grande parcheggio (a farla rinascere è stato un sindaco e non un sovrintendente). Trasformarla in un deserto non sarebbe diverso. Eppure, in altre città storiche le piazze del popolo restano del popolo. Forse perché altrove è chiaro un concetto: bisogna preservare le città, prima ancora che le pietre. La città è un corpo vivo, tagliarle le vene è un delitto: il più grave.
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