pubblicato su Parallelo41
Lo so, rischio la vita ogni giorno. Ma di andare al lavoro in bicicletta non ne posso fare proprio a meno, soprattutto da quando sotto casa è spuntata la pista ciclabile. Quando la Iervolino annunciò il suo progetto di costruire un percorso di 20 chilometri dedicati alle due ruote ecologiche pensai ad un sogno, al solito annuncio stravagante. Poi venne Giggino che, come è noto, trasforma i sogni in realtà, compreso quello di far cantare Springsteen sullo stesso palco dove ha cantato Gigi D’Alessio, et voilà, un tappetino d’asfalto arancione compare a pochi metri dal mio palazzo. Certo, il tracciato non è proprio quello che immaginavo. Da Bagnoli a Fuorigrotta la pista coincide col marciapiede e, in alcuni punti, si interrompe contro un muro o un sovrappasso in ferro (poi rimosso). Ci si può imbattere anche in qualche discarica improvvisata o in una comunità di barboni che ha piazzato i propri giacigli proprio sul quella lingua d’asfalto colorata. Poco male, arrivati a Fuorigrotta il percorso è protetto e completamente dedicato ai ciclisti.
Unico problema: prima della grotta che porta a Chiaia ci sono, in un centinaio di metri, sei attraversamenti da brividi, tutti rigorosamente senza semaforo. Dopo averli superati ti senti un sopravvissuto, uno pronto a qualsiasi sfida, e puoi affrontare a pieni polmoni un tunnel di un chilometro, una interminabile camera a gas e polveri sottili, e gli altri cinque attraversamenti che ti aspettano a Mergellina.
Arrivare sul lungomare, è una vera liberazione. Ma è solo un’illusione. In quel paradiso inatteso, in quel luogo ideale, ci si accorge che l’incubo non è finito. Dopo la giungla di auto e moto impazzite, c’è quella degli uomini o, meglio, dei napoletani, che non sanno neanche lontanamente cosa sia una pista ciclabile. Il ciclista di turno deve quindi cominciare un nuovo percorso ad ostacoli dove bisogna evitare, in ordine sparso, il runner che segue pedissequamente una linea a caso del tracciato, la mamma che ha deciso che i primi passi del proprio bimbo debbano essere fatti proprio davanti alla ruota della tua bicicletta, capannelli di persone che hanno deciso che quello è il luogo ideale per la riunione di condominio, e, poi, nei giorni di festa, migliaia di coppiette che camminano mano nella mano, in fila, sulla pista ciclabile come se fosse l’unica strada che conduce all’amore eterno.
Ma il peggio arriva al ritorno dal lavoro, quando il buio è calato sulla città, e migliaia di persone invadono i quartieri della movida cercando ristoro, alcol, figa, nulla cosmico. Durante i quattro chilometri e passa per tornare a casa oltre agli ostacoli fisici, bisogna imbattersi negli insulti gratuiti, che a Napoli vengono distribuiti con grande generosità; con qualche motociclista che ha deciso che la pista, in fondo, è anche sua; con gli automobilisti che hanno pensato che quello è il posto migliore per parcheggiare; ma, soprattutto, con i contestatori che identificano i ciclisti con lo Stato, il Comune e le regole.
Per questo, nell’unico tratto non destinato ai velocipedi, l’uomo senza casco che, in controsenso, ha rischiato di investirti mentre parlava al cellulare, ti ricorda: “Strunz’, ce sta ‘a pista ciclabile”. Arrivo a casa immerso nella mia riflessione sui napoletani, indeciso se affidarmi alla genetica o all’antropologia per definire quel loro modo di fare così poco europeo, e un pensiero va alla ruota che mi hanno rubato il primo giorno che ho ripescato la bicicletta dalla cantina per andare al lavoro. Ma non posso rinunciare per questo. Del resto, l’alternativa è un pullman che non passa mai e un biglietto troppo caro per la crisi. Domani torno in bicicletta.