Archivio mensile:Ottobre 2012

Gramellini, un razzista perbene

Gramellini, vicedirettore della Stampa di Torino, commenta l’episodio del servizio razzista sui tifosi napoletani trasmesso dal Tgr Piemonte. Ma il suo commento è più razzista del reportage della Rai. Nella prima parte del testo esprime una condanna d’ufficio al servizio giornalistico di pessima fattura. Ma il giornalista, che con le sue doti da scrittore leggero e qualunquista ha conquistato il grande pubblico, non ha digerito l’uscita del collega Roberto Saviano, più famoso e ricco di lui. Il professionista dell’Antimafia aveva ricordato un andeddoto dell’arrivo dei Piemontesi a Napoli: i sabaudi quando videro il bidet nella reggia di Caserta lo definirono “oggetto non identificato a forma di chitarra”. Il vicedirettore allora si sfoga con due argomenti: una falsità e un insulto. Dice che è vero che i piemontesi non avevano il bidet, ma ricorda che i napoletani non avevano le fogne. Falso. Il sistema fognario della città di Napoli viene realizzato in parte nel ‘700 (l’acquedotto esiste già da duemila anni), tanto che ancora oggi parte della città utilizza quella struttura. Ma questa è solo la premessa per il suo violento e odioso insulto razzista:

 “… i rimpianti Borbone, per potersi pulire le loro terga nel bidet, tenevano la gran parte della popolazione nella melma. Ora, che agli eredi diretti di Franceschiello dispiaccia di non potersi più pulire le terga nel bidet in esclusiva, posso capirlo. Ma che i pronipoti di quelli che venivano tenuti nella melma vivano l’arrivo dei piemontesi come una degradazione, mi pare esagerato”.

Traduzione: come fate a dire che i piemontesi erano peggio di voi, se vivevate nella merda? Lesa maestà, un terrone si è permesso di scalfire la superiorità piemontese. Da un giornalista del calibro di Gramellini ci aspettavamo di più che un insulto. Ma al vicedirettore honoris causa chi lo dice che Saviano non ha offeso nessuno? I torinesi dicono che i napoletani puzzano, i napoletani rispondono che quando in altra parte d’Europa si utilizzavano ancora strumenti rudimentali per l’igiene personale, qui c’erano strumenti “sofisticati”. È vero, qui come a Parigi si moriva di peste e di colera, e come a Parigi ci sono ancora cimiteri infiniti e nascosti di morti senza nome: milioni di ossa ammonticchiate come un monumento all’umanità. Napoli, del resto, era una grande, anche se controversa, capitale. Controversa, diversa, appunto. Eravamo altro da voi. Ma come dimostrano centinaia di documenti storici (atti parlamentari, saggi, inchieste), per i piemontesi i napoletani erano un’altra razza, inferiore, s’intende. È la spiegazione più complessa che hanno dato all’alterità. Per Gramellini non è cambiato niente, è un piemontese razzista e il diverso è “melma”. Anche per i napoletani non è cambiato niente, tra quelle ossa non riconoscono ancora il bianco e il nero.

Prefetto contro prete, giornalismo sconfitto

L’episodio del prefetto di Napoli che salta al collo del prete anticamorra, solo perché chiama signora e non “eccellenza” il prefetto di Caserta, è inquietante. In realtà, don Maurizio ha rovinato la festa ad Andrea De Martino, che aveva organizzato una conferenza stampa per snocciolare dati relativi alla guerra ai roghi di rifiuti tossici, l’ultima sua uscita pubblica prima di andare in pensione, l’ultima possibilità di far apparire imponente un’azione fallimentare sul territorio della provincia di Napoli. Le parole del prete hanno fatto perdere la testa al prefetto, perché lo hanno sbugiardato. E l’attacco al prete appare ancora più odioso perché nel Parco Verde di Caivano e nei territorio dove il parroco si muove lo Stato non esiste. De Martino non c’è, l’unico prefetto è don Maurizio. Ma il problema reale non è questo. I giornali il giorno dopo quella conferenza erano pieni di resoconti sui dati e sulle dichiarazioni ufficiali sui roghi tossici. Dell’episodio di don Patriciello nessuno ha parlato. Se n’è cominicato a discutere solo due giorni dopo, quando sulla rete ha cominciato a circolare il video che aveva immortalato quell’episodio di abuso. Certo, perché nei Palazzi gli abusi del potere, piccoli e grandi, vengono tollerati anche da chi è deposto a vigilare, come i giornalisti. C’è un’assuefazione pericolosa. Nessuno ha raccontato quando doveva raccontare. Del resto, il prefetto era talmente sicuro di essere protetto dalle mura del suo Palazzo che, nemmeno per un attimo, ha pensato alle conseguenze del suo gesto. A fare il mestiere del giornalista ci ha pensato, invece, qualcuno che era tra i cittadini a riprendere con il proprio telefonino quanto accaduto. Le mura del Palazzo sono state violate, il sopruso reso pubblico. E non da chi aveva il dovere di farlo. Se non ci fosse stato quel telefonino, nessuno ne avrebbe parlato. Solo di fronte all’evidenza anche gli appiattiti organi di informazione non hanno potuto tacere. Questo deve porre dei seri problemi a chi si occupa di informazione per mestiere. L’era 2.0 del giornalismo è cominciata da un pezzo: gli strumenti del comunicare sono nelle mani di tutti e chiunque può produrre informazioni e notizie. I giornalisti devono soltanto decidere se il loro mestiere è adesso raccoglierle e veicolarle, come chi guarda la realtà dal buco della serratura del proprio schermo. Oppure riprendere l’antica vocazione che fa vedere e raccontare al cronista cose che gli altri non vedono. Ma per questo si dovrebbe cominciare a sentire disagio nei confronti del potere e di ogni abuso e stare sempre dalla parte della gente.