«Noi senza corpo e senza assistenza», l’odissea degli ammalati di Sla

l loro corpo è immobile, senza riflessi. La loro vita è sospesa a una macchina che gonfia i polmoni a intervalli regolari. Un sondino porta l’alimentazione direttamente nello stomaco. Non hanno voce. Gli ammalati di Sla hanno solo gli occhi, per vedere, per parlare, per scrivere, per piangere. Sono completamente dipendenti dalle cure dei loro cari, quando possono restare a casa, quando ci sono i servizi di assistenza domiciliare; e dalle macchine. Altrimenti devono vivere in un reparto di Rianimazione, dove possono ascoltare solo il rumore del loro respiratore, il ritmo esasperante del tempo vuoto che li separa dalla morte: una condizione disumana alla quale saranno condannati i 29 ammalati di Sla napoletani che sono inseriti nel programma Adoti (Assistenza ospedaliera domiciliare territoriale integrata). Dal primo marzo, infatti, i 10 medici e i 15 infermieri che si occupano del servizio si autosospenderanno, non assisteranno più gli ammalati presso le loro abitazioni. Il motivo? L’Asl Napoli 1 non paga da ben 15 mesi, nonostante la Regione abbia messo a disposizione i fondi fino al 31 dicembre del 2011. Insomma, il centro superspecializzato del Vecchio Pellegrini, di fatto, non esisterà più e i pazienti non potranno più contare sulle due visite infermieristiche settimanali e sulle due visite specialistiche mensili, oltre che su un’assistenza continua, che va ben oltre gli orari di lavoro degli operatori sanitari e che garantisce serenità e forza ai pazienti e ai loro parenti.
Un danno enorme per le famiglie, che adesso dovranno far fronte a problemi che vanno dalla fornitura dei materiali, necessari per far sopravvivere gli ammalati a casa, alle macchine ai presidi medici essenziali; fino alla gestione delle emergenze, che spesso si presentano e che solo personale adeguatamente preparato può trattare.
Un danno enorme anche per la società, per i costi che questa deficienza, tutta istituzionale e burocratica, comporta. Un posto occupato in rianimazione costa circa 1.500 euro al giorno, ed è un posto in meno per le emergenze. La cura domiciliare costa più di dieci volte in meno, e garantisce una vita migliore agli ammalati. Ma pare che questi non siano argomenti sufficienti a garantire l’esistenza di un servizio essenziale. Uno scandalo, al quale si aggiunge un altro scandalo: quello dei computer che permetterebbero agli ammalati di comunicare con il mondo. C’è stata una gara d’appalto per la fornitura di apparecchiature che, grazie ad un lettore a raggi infrarossi, permette ai pazienti di utilizzare il Pc con gli occhi: leggere, scrivere, comunicare con il mondo. Per queste persone significa semplicemente vivere. Senza non sono nulla, sono dei vegetali con un cervello vivissimo ed emozioni devastanti. Il problema è che la strumentazione informatica distribuita non è adeguata, è vecchia e inutilizzabile. Alcuni, i più fortunati, hanno provveduto da sé acquistandola, il prezzo va dai 10mila ai 20mila euro, oppure affittandola (il costo si aggira intorno ai 500 euro al mese).
Oltre ai numeri, però, ci sono le storie di chi ha avuto la sfortuna di essere colpito da questa terribile malattia, di chi l’ha saputa affrontare, di chi combatte ogni giorno.

Franca Ferretta, per poter comunicare deve spendere 500 euro al mese

Franca Ferretta, tre figli, ha insegnato a Secondigliano in una scuola di frontiera. La malattia si è presentata con un piccolo problema al piede. Progressivamente è peggiorata: ha cominciato a zoppicare, poi a camminare col bastone, poi sulla sedia a rotelle. Adesso non muove un muscolo ed è attaccata ad un respiratore. I medici pensavano si trattasse di un problema ortopedico. «Pochi sapevano cosa fosse questa malattia e come trattarla – dice il marito Bruno Coppola, ingegnere dell’Alenia – Piano piano si ferma tutto, fino a che non diventi un cervello vivo in un corpo morto. Nel 2009 Franca ha avuto un blocco respiratorio e da allora è immobilizzata. Ma da quando abbiamo preso in affitto il computer ha cominciato a vivere, quello che ci era stato fornito dall’Asl era rotto e vecchio, praticamente inutile». Bruno mostra la stanza dove vive la moglie: «È praticamente una terapia intensiva domestica, con tanto di certificazione – afferma, poi mostra tutte le attrezzature fornite dall’Adoti – Come faremmo senza quest’assistenza? Per noi sarebbe impossibile. Qui Franca può comunicare con i figli via Skype, può leggere i giornali, può parlare attraverso il computer. Non sarebbe possibile in un reparto di Rianimazione. Non capisco perché un servizio che dovrebbe essere esteso anche ad altri, viene tolto anche a quelli che ce l’hanno».
Pasquale Sannino, ingegnere, ha perso il figlio di 16 anni nel 2009 durante una lezione di vela al Circolo Canottieri Savoia, episodio di cui parlarono anche le cronache nazionali. Ogni giorno si reca al lavoro a Fiano Romano e torna la notte per stare vicino alla moglie Maria, che da due anni è immobilizzata nel letto. Maria, professoressa di matematica, ha cominciato ad avere problemi alla lingua. Ma è trascorso un anno e mezzo prima che qualcuno riuscisse a diagnosticarle la Sla. Da due anni è completamente immobile, ma, come Franca, riesce a comunicare grazie al computer «che sono stato costretto ad acquistare per 20mila euro – dice Pasquale – Per l’assistenza si alternano tre badanti. Ma solo grazie all’Adoti mia moglie ha una vita. L’assistenza degli specialisti del Pellegrini ci permette di affrontare con più serenità la malattia». Antonio Castellano, calzolaio, una figlia biologa, un’altra all’università, è stato costretto a licenziarsi per assistere la moglie Mariarosaria. Ha 4 bypass e una pensione d’invalidità. «Prima che riuscissero a diagnosticarle la malattia, l’hanno operata prima per una cisti, poi per una stenosi al canale vertebrale – dice Antonio -, due interventi inutili, mia moglie aveva la Sla che gli è stata diagnosticata al Pellegrini». Stefania Bottone, 25 anni, con la mamma assiste il padre Vincenzo, ex ristoratore, costretto dalla malattia ad abbandonare tutto. «Si è ammalato 15 anni fa, a 40 anni – racconta – è stato salvato dai medici dell’ospedale della Pignasecca dove è stato in coma per due mesi. Per noi l’assistenza dell’Adoti è fondamentale, anche per le emergenze. Ci è capitato di chiamare il 118 per un’insufficienza respiratoria, non sapevano cosa fare. I soccorritori sono stati costretti ad andare a prendere a casa uno dei medici del Pellegrini. Mio padre ha una forza incredibile, vuole vivere, ma gli devono dare questa possibilità. Non possono fermare l’assistenza». Anche Giuseppe Olivetta deve molto al centro guidato dal professor Antonio Macarone Palmieri. All’inizio hanno tentato di curare la moglie Mariarosaria per malattie che non aveva, prima a Milano, poi a Pescopagano, qualcuno, addirittura, ha provato con l’agopuntura. Alla fine al Policlinico di Napoli le hanno detto che aveva la Sla. Anche lei è immobile nel letto. Ma vive a casa, perché, ancora per poco c’è chi le dà questa possibilità. Le spese per la famiglia sono enormi: 4 infermiere, una cameriera, 5-6mila euro al mese. Ma è il costo per una vita migliore, nella propria casa e non sepolti vivi nella stanza asettica di un ospedale. Per questi ammalati la vita è una scommessa, ogni giorno. E un ambiente umano è l’unica possibilità per dare loro la forza necessaria. Perché c’è anche chi, come Annamaria Naldi, vuole morire e quando poteva ancora muovere il braccio tentava di staccare i tubi che la collegano alle macchine. «Per noi è un sacrificio e una fatica enorme l’assistenza – dice la figlia Laura Urso – Ma lo facciamo volentieri perché sappiamo che per loro il reparto di Rianimazione sarebbe la morte».

pubblicato sul Roma del 9 febbraio 2012

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