Archivio mensile:Luglio 2013

Lo Sferisterio? Facciamone un parcheggio per il lungomare liberato

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Per Fuorigrotta c’è un progetto di rilancio, ma tutto è fermo. È vero, non ci sono soldi. Ma si potrebbe cominciare dai progetti sui quali possono investire i privati. Il vero freno, però, è rappresentato dalla burocrazia e dall’assenza di idee chiare da parte dell’Amministrazione. Il caso Zoo è emblematico, a Palazzo San Giacomo dichiarano di voler rendere tutto più facile per chiudere l’affare. Ma, dall’altra parte, la Mostra d’Oltremare, partecipata del Comune, ritarda questa procedura. I vincoli e gli abusi edilizi fanno scappare le società che vogliono prendersi l’Edenlandia, ma quegli ostacoli non vengono eliminati. Facciamo un altro esempio. Lo Sferisterio, distrutto dalla camorra nel 1986, è un monumento alla vergogna. Tutti i progetti di riqualificazione sono naufragati di fronte al vincolo posto dalla Sovrintendenza di non cambiare la destinazione d’uso (anche se la pelota non la gioca più nessuno). Eppure, piuttosto che far marcire quel rudere sarebbe meglio anche un parcheggio di interscambio per chi è diretto in centro o sul lungomare liberato (conservando la struttura esterna). Chiaramente lo sferisterio potrebbe anche essere tante altre cose. È evidente che a Napoli c’è una necessità: lo sviluppo della città. E c’è un ostacolo: chi la amministra, a tutti i livelli. Negli anni ’50, grazie ad un uomo di immensa cultura come Carlo Bo e ad un grande architetto come Giancarlo De Carlo, Urbino è diventata quello che è oggi: una città medievale con parcheggi sotterranei e con palazzi che all’esterno hanno conservato il loro antico aspetto, e all’interno sono delle avveniristiche strutture in cemento armato belle e funzionali. Ma per queste trasformazioni ci vuole il coraggio e la forza delle idee.

Grandi eventi, a Napoli servono solo se portano finanziamenti

L'area di Barcellona rivoluzionata per il Forum del 2004

L’area di Barcellona rivoluzionata per il Forum del 2004

Il sindaco Luigi de Magistris ha puntato tutto sui Grandi eventi, dalla Coppa America al Giro d’Italia, passando per la Coppa Davis. L’obiettivo è quello di rilanciare l’immagine della città, la promessa è quella di accogliere sempre più turisti. Una spesa certa e importante, rispetto ad un ritorno economico non immediato e, soprattutto, incerto. Nel recente passato è stato dimostrato come una crisi legata all’emergenza rifiuti possa cancellare anni di marketing territoriale in tempi brevissimi. Se si pensa che qualche recensione positiva sui giornali internazionali, qualche spot di discutibile fattura e qualche foto su internet possano produrre qualcosa di positivo e determinante è un’illusione da abbandonare nel più breve tempo possibile. Napoli non è stata inventata dal sindaco arancione, è una città con qualche millennio di storia. C’è una letteratura sconfinata che ne ha fatto un mito nel mondo. A Palazzo San Giacomo su questo aspetto c’è un po’ di confusione: il Vesuvio non è lo sfondo delle barche a vela, ma lo sterminatore che ha distrutto Pompei. Firenze, Venezia, Roma non vivono di grandi eventi, ma del loro immenso patrimonio. Sono città dove fiumi di turisti ogni giorno invadono le strade e non certo per gli eventi che si organizzano. È vero, gli eventi servono alle città importanti, ma devono essere davvero grandi. Il Forum delle culture lo insegna, con i finanziamenti ottenuti Barcellona e Monterrey hanno completato le loro rivoluzioni urbanistiche. Ma se non sono questo, queste manifestazioni non servono, se non portano alla città milioni di euro subito lasciamole stare.

Napoli città morta, la cultura si fa nei centri commerciali

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Le serrande chiuse di Fnac avevano prodotto un senso di inquietudine nei residenti del Vomero. Come se fosse stata cancellata una piazza, con i suoi palazzi, le panchine, le colonne dove appoggiarsi, i tavolini dei caffè all’aperto. Il quartiere più borghese della città sarebbe rimasto orfano dell’unico suo luogo di incontro e di cultura. È un paradosso ma è così: i musei, le librerie, i bistrot non svolgono alcuna funzione aggregante in una zona ad alta vocazione residenziale se non ci sono stimoli. Al centro storico, ad esempio, l’università funziona da enorme motore culturale, non perché è l’Accademia, ma perché riunisce attorno a sé una grande quantità di persone di diversa provenienza sociale, di città diverse, ma con interessi comuni. Per questo ogni spazio di quel quartiere può diventare un luogo di incontro vero e, quindi, di cultura: dal bar, al cinema, alla libreria. Al Vomero non è così. Paradossalmente, però, un piccolo centro commerciale, come Fnac, ha svolto, in parte, questa funzione. In quel negozio, dove si può entrare anche solo per guardare e per incontrare, appunto, si ritrovano persone che possono parlare insieme delle stesse cose: dai libri alla fotografia, dalla musica all’informatica. È un luogo commerciale che diventa piazza, è la cultura tenuta in vita dal mercato. Questo, però, deve stimolare una riflessione. Se la cultura ha bisogno di centri commerciali per sopravvivere, significa che attorno c’è il deserto: un vuoto pericoloso, una città morta.

Il corsivo sul Giornale di Napoli di oggi

La parte degli angeli, “Operazione San Gennaro” firmata Ken Loach

FILM POETICO E IMPEGNATO PER IL QUALE IL REGISTA HA RIFIUTATO UN PREMIO AL TORINO FILM FESTIVAL PERCHÈ IL PERSONALE DELLA MANIFESTAZIONE ERA SFRUTTATO E MALPAGATO.

di Roberto Gallone*

La parte degli angeli, l’ultimo film i Ken Loach, è l’ennesima prova di un regista e uomo dalla coerenza rara, che ha saputo dire no, rifiutandolo, il “Gran Premio Torino” al Torino Film Festival, in quanto secondo il regista inglese la cooperativa che appaltava i servizi (biglietteria, accoglienza e sorveglianza all’interno della Molte Antonelliana) del prestigioso Museo del Cinema di Torino, sfruttava i lavoratori con salari bassissimi, dimostrandosi cosi fedele alla visione della realtà descritta nelle sue opere senza tradirla con azioni ipocrite e contraddittorie.
Loach ripropone un’altra opera rabbiosa e ironica, conservando lo sguardo di chi si trova dalla parte degli umili, raccontando una favola moderna sulla redenzione e il cambiamento tipica di un racconto di formazione. E si torna a riflettere sulle problematiche giovanili, sempre pi radicate nell’emarginazione e nella mancanza di prospettive.
La parte degli angeli (ovvero quel 2 per cento dello whisky contenuto in una botte che evapora ogni anno) è un’opera che alterna momenti drammatici e violenti a sequenze leggere ed esilaranti. È la storia di quattro teppistelli disgraziati che vanno alla ricerca di un proprio riscatto, di una possibilità che possa fargli (ri)vivere una vita normale fatta di famiglia e lavoro.
Mentre la prima parte del film illustra e descrive le personalità dei personaggi, i loro rapporti, e l’ambiente degradato in cui vivono (una grigia, soporifera e alienante Glasgow), la seconda parte è incentrata sulla realizzazione, grottesca e divertente di un colpo (che ricorda in parte l’Operazione San Gennaro di Dino Risi) ideato da Robbie, uno dei quattro giovani. Un elogio, questa seconda parte, all’astuzia e all’arte dell’arrangiarsi.
Ken Loach sta da sempre dalla parte buona, e dalla sua parte stanno tutti quei personaggi, di ambientazione proletaria, che vanno alla ricerca di un senso di senso di riscatto e di giustizia che permetta loro di lottare all’interno di una società iniqua e sbandata, fatta di scenari tetri e senza via d’uscita. Dalla parte degli angeli è fedele alla filmografia del regista britannico e anche quest’ultimo lavoro non fa eccezione nel suo essere impregnato di disagio, solidarietà, politica e riscatto sociale ma descritti, questa volta, in maniera leggera e divertente e senza perdere il tenero sguardo che è rigorosamente dalla parte degli ultimi.

*psicologo ed esperto di cinema

Io e te, il grande ritorno di Bertolucci

di Roberto Gallone*

È bello ritrovare uno dei maestri della cinema italiano dopo dieci anni di assenza e, Io e te, l’ultima sorprendente fatica di Bernardo Bertolucci, appare come un’opera di rinascita ispirata dalla malattia che negli ultimi anni lo ha strappato al cinema e al suo pubblico.
Due giovani attori esordienti, estremamente convincenti per la naturalezza e la spontaneità con cui si muovono sulla scena, in un’impolverata e buia cantina di un quartiere bene di Roma, affrontano il loro personalissimo microcosmo fatto di solitudini e incomprensioni, una location non dissimile dalla casa di Parigi del ‘68 del suo ultimo film. Ma la tana dei due giovani non è come in The Dreamers un nascondiglio partorito dal quieto, noioso ed edonistico benessere della privilegiata borghesia parigina, ma un luogo buio, sotterraneo, carico di ingombranti ammassi che il passato vomita e rigetta, un luogo affollato e riempito come lo è la mente di Lorenzo, sociopatico adolescente, che si immerge nel suo sua musica assordante. È un luogo sporco, polveroso, circondato da mobili corrosi dai tarli e dal tempo, divorati come lo è, la sorellastra Olivia, dall’eroina, dalla solitudine e dal suo silenzio assordante. La cantina di Lorenzo e Olivia è un luogo vuoto-pieno, da riempire e da svuotare. È uno scenario in cui non ci sono i “sognatori” con i grandi ideali, ma due anime affrante, spente e distaccate dal mondo che li circonda, che portano dentro il caos, un cancro li divora lentamente fino a renderli estranei a sé stessi.
Si riconosce in Io e Te, liberamente ispirato dall’omonimo romanzo di Nicola Ammaniti, il leitmotiv delle opere di Bertolucci, quell’isolamento condiviso che diventa per i suoi personaggi un’occasione per farli (ri)conoscere, esplorare a vicenda e che li prepara ad un rientro consapevole alla “normale” (“normale vuol dire niente” dice Lorenzo nella prima scena del film) quotidianità. Ma in Io e te c’è anche la tenerezza che si manifesta nel suo splendore nel lungo e caldo abbraccio, a cui i due ragazzi disperatamente si aggrappano. Un abbraccio che ha la forza di riaccendere l’interruttore delle rispettive esistenze e di rimetterli, chissà per quanto, in carreggiata, pronti ad affrontare quel mondo esterno che ai loro occhi appare più buio e sporco della loro rassicurante cantina.
Bernardo Bertolucci continua ad essere uno di quei pochi registi che sa raccontare la vita attraverso lo sguardo incantato delle giovani generazioni sapendone cogliere l’onnipotenza e la fragilità che da sempre le caratterizza, e lo fa con un sguardo autentico, essenziale e di rara bellezza.

*psicologo ed esperto di cinema

Premi e riconoscimenti: “Nastro d’argento” migliore opera, “Globo d’oro” migliore musica, sette nomination ai “David di Donatello”.

Regia Bernardo Bertolucci Soggetto Nicolò Ammaniti Sceneggiatura Bernardo Bertolucci, Nicolò Ammaniti, Umberto Contarello e Francesca Marciano