Archivio mensile:Giugno 2013

Se una cozza risveglia l’incubo dei napoletani

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Il corsivo di oggi su il Giornale di Napoli

Trecento tonnellate di cozze al macero, addio impepata per i napoletani appassionati di muscoli (le chiamano così le cozze a Genova). Sì, perché durante tutto l’anno i mitili vengono acquistati in strada su bancarelle improvvisate, senza alcuna etichetta che ne certifichi la provenienza e protetti dal sole solo dal potere refrigerante di un vecchio ombrellone. Ma quando la Capitaneria, in estate, sequestra quintalate di molluschi coltivati vicino agli scarichi fognari, dove a 500 metri ci sono regolari concessioni, scatta la fobia. La verità è che i napoletani, gli stessi che hanno mangiato cozze killer tutto l’anno, sono terrorizzati dai grandi numeri. Non è il semplice malore né il tifo e neanche l’epatite a far paura. È la pandemia. È quel male inarrestabile che improvvisamente invade i vicoli, che prende anche chi non ha colpe e che lascia un marchio indelebile sulle persone e sulle città. A Napoli per secoli ha governato la peste, più del vulcano, più dei re. Sono passati solo 40 anni dall’ultima epidemia di colera. Chi ha viaggiato in quel 1973 ricorda cosa significava dire: “Sono di Napoli”. Basti pensare che negli stadi ci chiamano ancora “colerosi”. Oggi, chiaramente, non c’è alcun pericolo di epidemia. È solo che le cozze hanno per i napoletani la stessa funzione catartica che gli alieni hanno nella letteratura e nel cinema per gli americani: sono metafora della società, incarnano le paure di un popolo. Ma tra il terrore costante dell’ignoto e il timore temporaneo della dissenteria, stiamo certamente messi meglio noi.

 

Se la tragedia è sempre annunciata c’è un problema

DONNA MUORE SCHIACCIATA DA UN ALBERO

Sembra solo retorica, ma ci sono i fatti a dimostrare che non è così: a Napoli le tragedie sono sempre annunciate e nessuno interviene per evitarle. Un paio di settimane prima del crollo del palazzo alla Riviera di Chiaia, il direttore dei lavori del cantiere della metropolitana aveva scritto che c’erano rischi serissimi che si potesse verificare qualche cedimento. Quella lettera non è stata ignorata, ma superata da una riunione in cui si è deciso che, in fondo, non era proprio così e che si poteva continuare senza problemi. Purtroppo, l’ingegnere che aveva deciso di mettere nero su bianco le sue perplessità aveva ragione. Ieri un albero enorme, che si piegava pericolosamente verso la strada, ha schiacciato un’auto e ucciso una donna di 44 anni. I residenti avevano più volte denunciato la cosa alle Autorità competenti. Ma l’enorme apparato burocratico del Comune di Napoli si difende affermando che non c’è una sola carta che dimostri la segnalazione del pericolo da parte dei cittadini. Non solo, controlli erano stati effettuati a maggio, ma solo sulla salute del pino secolare, non sulla sua pendenza pericolosa o sui rami troppo sporgenti sulla strada. Sono giustificazioni che lasciano il tempo che trovano: nessuno pensa di chiedere aiuto a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno e tutti si aspettano una verifica completa sul rischio di un albero cadente, senza che si debba necessariamente convocare una conferenza dei servizi o una riunione in Prefettura. Se qualcuno ha la responsabilità dell’Amministrazione, se la prenda fino in fondo o vada a fare altro. Basta con le offese ai cittadini.

Torino rimborsa se il bus è in ritardo, Napoli umiliata

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il corsivo su il Giornale di Napoli di oggi

A Torino se i bus fanno   ritardo, gli utenti vengono risarciti con tre euro, una somma che va oltre il costo del biglietto perché quell’attesa non dovuta rappresenta un danno per i cittadini. Il rimborso scatta per ritardi a partire dai 15 minuti sui bus a intervallo, dai 30 per quelli a orario, dai 45 per i tram, ma anche in caso di soppressione della corsa della metropolitana. Il progetto si realizza mentre a Napoli, in un giorno come un altro, sono ferme tutte le linee dei bus che collegano l’area metropolitana e le altre province, quelle dell’Eavbus, per uno sciopero selvaggio che, probabilmente, si protrarrà per dei giorni. Mentre in città gli utenti dell’Anm possono attendere ore alla fermata per scoprire, poi, che la linea è stata soppressa perché i mezzi sono tutti rotti. Succede mentre migliaia di utenti delle metropolitane della Sepsa e della Circumvesuviana, ogni giorno, non sanno esattamente a che ora e se passerà il loro treno. La lista è troppo lunga per continuare e non comprende altri argomenti come lo stato pietoso delle vetture sulle quali gli utenti campani sono costretti a viaggiare. Agli amministratori della nostra Regione e dei Comuni che accampano scuse risibili per giustificare questo stato di cose basti quello che succede a Torino. Città che si trova in Italia, esattamente nello stessa nazione nella quale si trova Napoli. Ci sono le stesse regole, le stesse leggi, le stesse tasse. Non ci sono gli stessi amministratori e gli stessi manager, non c’è stato lo stesso sistema che ha fagocitato risorse senza erogare servizi. Ad essere risarciti dovrebbero essere i napoletani e a pagare dovrebbero essere quei manager.

Per la Coppa America sacrificate le torri del Castel dell’Ovo

il corsivo di oggi su il Giornale di Napoli

L’ inchiesta che è stata aperta sulla presunta turbativa d’asta per gli appalti della Coppa America era nell’aria. In troppi stavano sollecitando la Procura ad aprire un fascicolo. Probabilmente verrà dimostrata la buona fede di tutti gli indagati, dal colonnello dei carabinieri Attilio Auricchio al fratello del sindaco Claudio de Magistris. Gli amministratori avranno l’occasione di dare la loro versione dei fatti agli inquirenti. Ma, in qualunque caso, inchiesta o no, devono delle risposte ai napoletani ai quali interessa relativamente dei soldi sprecati, di gare d’appalto dubbie e di cavilli non rispettati. E sono risposte che vanno date subito. Ai cittadini interessa, ad esempio, il fatto che per permettere la realizzazione di un evento dagli esiti incerti sull’economia della città sono state sacrificate opere che fanno parte del patrimonio della città. Due, in particolare, la prima è la Cassa Armonica in Villa Comunale. Per l’esigenza di metterla in sicurezza è stata smontata e i pezzi di ghisa e vetro giacciono da più di un anno nel fango e alle intemperie. Il restauro costerebbe più di 400mila euro, ma i soldi non ci sono ed è fallito il tentativo di trovare uno sponsor. Le altre sono le torri del Castel dell’Ovo sulle quali fu effettuato un restauro con un appalto assegnato senza gara (perché sotto i 50mila euro). Adesso quelle strutture sono ingabbiate, rischiano di crollare. È una ferita che Napoli non meritava. La storia della città non vale l’effimero di un evento che nessuno, tra qualche anno, ricorderà più.

La città assuefatta risvegliata da un finto stupro

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il corsivo di oggi su il Giornale di Napoli

Napoli è una città assuefatta alla violenza. Davanti ai corpi massacrati dei camorristi abbiamo visto ragazzini fare foto con i cellulari, altri ridere come al bar e gente passare indifferente senza neanche chiedere cosa fosse accaduto. È una città assuefatta ad ogni tipo di prevaricazione e abuso. Lo scippo, la rapina, la guida senza regole, la tangente al parcheggiatore abusivo fanno parte di una routine che stancamente risubiamo e tolleriamo, così come i cumuli di rifiuti ad ogni ora del giorno, i quartieri dormitorio da Quarto Mondo, il lavoro nero e quello che non c’è. Ma di fronte alla notizia, per fortuna falsa, di una donna stuprata in pieno centro storico, la città ha reagito subito, tutta. A urlare in piazza ieri mattina contro quell’orrendo atto criminale c’erano centri sociali, studenti, associazioni, c’erano donne alle finestre, c’erano gli ultimi. È stato come se la paura fosse entrata nelle case come un vento gelido che abbatte muri e finestre, che non lascia speranze. La violenza sessuale supera ogni altro abuso, è un saccheggio dell’anima, va oltre il corpo umiliato. Supera anche la vittima stessa, arriva agli altri come turbamento. Pensare che possa accadere sotto casa rende tutti più fragili e impotenti, prigionieri. Ecco, la città assuefatta e apatica ha reagito per questo, perché se a quella donna era stata scippata la dignità, a tutti gli altri era stata scippata la strada, la libertà di poter camminare nel proprio quartiere, di respirare la polvere dei vicoli, di non avere il terrore di tornare tardi, di essere liberi nelle cose piccole.

Quartieri abusivi, abbattiamoli e ricostruiamoli

SEQUESTRI COSTRUZIONI ABUSIVE

Il corsivo di oggi su il Giornale di Napoli

Se qualcuno ha messo le mani sulla città costruendo rioni abusivi è perché qualcuno glielo ha permesso. Interi quartieri sono nati senza che nessuno alzasse un dito per impedirlo: palazzoni, strade e, come nel caso di Pianura, anche scuole. Questo è successo sia durante le amministrazioni di destra, come quella di Achille Lauro, sia durante quelle di sinistra, come la cosiddetta giunta “illuminata” di Maurizio Valenzi. E citiamo solo i due sindaci più importanti del Dopoguerra (solo con la Iervolino e con de Magistris la politica degli abbattimenti si è fatta più intensa). La Procura ha ragione quando punta il dito su chi non ha vigilato. C’è stato un pericoloso “lassaiz faire” che ha provocato il saccheggio del territorio. Ma alla base di questo stare a guardare c’è un solo problema: l’assenza cronica di politiche per la casa. Gli amministratori hanno pensato che sarebbe stato molto più semplice sanare che programmare, molto più facile condonare che progettare. Un’omissione gravissima che ha portato a conseguenze mostruose: orrendi quartieri nati senza alcun piano in zone dove non sarebbero mai dovuti essere costruiti, migliaia di famiglie che vivono con l’incubo di perdere la casa, la camorra padrona del territorio dove ha costruito e speculato per anni. L’unica soluzione a cui si pensa, adesso, è abbattere e le uniche vittime sarebbero le famiglie che hanno trovato un tetto sbagliato. Le Amministrazioni hanno il dovere morale di risarcire i cittadini. Lo facciano abbattendo gli abusi e ricostruendo una città a misura d’uomo, magari anche bella.

Plebiscito, ora cambiamo nome alla piazza

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Corsivo pubblicato su il Giornale di Napoli di oggi

Molte piazze hanno dei nomi che sono stati scelti più o meno a caso. Garibaldi, Vittorio Emanuele, Mercadante potrebbero essere anche in altri luoghi. Piazza del Plebiscito no. Si chiama così perché in quello slargo si sarebbero dovute radunare grandi folle, “oceaniche” le definì D’Annunzio nel periodo delle dittature. C’è quindi una ragione storica molto semplice per cui l’adunanza rappresenta il senso stesso di quel luogo, per cui quello spazio comincia a pulsare solo quando è pieno di anime. Dire, come fa il sovrintendente, che una piazza che si chiama del Plebiscito non debba radunare grandi folle è come dire che il latte non vada conservato in frigo. È vero, il ruolo del sovrintendente è quello di preservare. Ma è proprio questo il punto. Il burocrate fa il suo mestiere mettendo un veto sulle pietre, senza pensare cosa comporti questo per la città, senza pensare che vantaggi possa avere per la vita della gente uno spazio vuoto, un non luogo, seppure bellissimo. Se la tesi di Giorgio Cozzolino è questa allora possiamo cambiare anche nome a quello spazio, dimenticare cosa ha rappresentato nella storia e cosa rappresenta adesso. Del resto, già in passato la piazza è stata violentata: dal 1963 al 1994 è stata un grande parcheggio (a farla rinascere è stato un sindaco e non un sovrintendente). Trasformarla in un deserto non sarebbe diverso. Eppure, in altre città storiche le piazze del popolo restano del popolo. Forse perché altrove è chiaro un concetto: bisogna preservare le città, prima ancora che le pietre. La città è un corpo vivo, tagliarle le vene è un delitto: il più grave.