Grillo fa paura e per tentare di abbattere il nemico scendono in campo anche i cecchini di mestiere della carta stampata come Aldo Grasso, critico televisivo che per l’occasione si occupa di politica. Lo fa occupandosi di televisione, ripescando nel calderone delle opere televisive del comico genovese. Le bolla come originali, non convenzionali, un po’ provinciali, ma nulla di più. Qualsiasi cosa abbia fatto Grillo, resta soltanto una scoperta di Pippo Baudo. L’acume dell’accademico Grasso si supera, quando afferma che, il poveretto nell’agone politico non fa che replicare lo schema trito e ritrito di quei programmi, beffeggiando gli avversari con la stessa tecnica irriverente. Il buffone che vuole farsi re utilizza argomenti di alta demagogia per portare il popolo dalla sua parte. Prendersela con le tasse, dice Grasso l’illuminato, dà agli evasori l’alibi per non pagarle. Che genio. Che genio (due volte). Peccato che in Parlamento da 20 anni ci sono uomini che parlano di secessione, che l’ex presidente del consiglio parla della magistratura come il peggiore dei mali e che metà del Parlamento parla dell’abbonamento alla Rai come una tassa facoltativa (solo per fare un esempio stupido), che altri parlamentari decidono il partito secondo la logica del “chi offre di più”, che la mignottocrazia è la nuova forma di governo del Paese. Grasso dice che Grillo è solo una scoperta di Pippo Baudo (ma chi non è la scoperta di qualcuno in tv?), parla dei suoi programmi televisivi, ma omette un piccolo, banale, particolare. Grillo può essere anche solo un comico, ma è l’autore di uno dei primi dieci blog del mondo. In Italia non c’è una tv che è tra le prime dieci del mondo. Non male per un buffone. Il consenso non è tutto, ma è quanto basta per considerare un uomo un interlocutore e non un buffone, anche se non ti paga lo stipendio.
Archivio mensile:Aprile 2012
«Lavora poco», commissario Asl silura il portavoce
Al suo ingresso all’Asl Napoli 1 come commissario straordinario, il generale Maurizio Scoppa cancellò l’ufficio stampa e tutte le strutture collegate: «Non mi serve – disse – È uno spreco. Quelle risorse possono essere impiegate per altre cose». La giornalista professionista che ricopriva l’incarico, Alessandra Origo, fu spostata ad altra mansione, che nulla ha a che vedere con le sue reali competenze. Adesso il generale silura anche il suo portavoce. La motivazione? «Lavora poco». Maria Cristina Boccia, 41 anni, laureata in medicina nel 1997, si è specializzata in Igiene e medicina preventiva. Da quattro anni in forze alla direzione generale dell’Azienda sanitaria napoletana, ha il ruolo di vicecapo di gabinetto.
Per ben otto mesi la Boccia è il braccio destro del generale. Ad agosto la dirigente, dimenticando le ferie, organizza in tempi record il trasferimento degli uffici del centro direzionale al Frullone. È il primo atto del taglio agli sprechi: un milione di euro in meno all’anno per le casse dell’Asl. Pare impossibile ma tutto riesce. A settembre la presentazione ufficiale dei programmi del generale e della nomina a portavoce. La rivoluzione del comandante dei carabinieri in pensione non piace a nessuno nell’Asl Napoli 1, la sua “vice”, però, ne sposa completamente la causa. Difficile reggere i ritmi militari, ma si può fare. Sono mesi molto difficili, con gli ospedali bloccati dalle proteste degli operai delle ditte che per anni avevano ottenuto, «illegittimamente», proroghe degli appalti. Arrivano, poi, anche le proteste dei medici, degli infermieri, quelle dei direttori sanitari, per non parlare della politica. Uno contro tutti, ma Scoppa prosegue per la sua strada con i suoi più stretti collaboratori.
Poi, improvvisamente, dopo Pasqua arriva la rottura. Passate le feste arriva la comunicazione al portavoce e vicecapo di gabinetto: rimossa dall’incarico. La dirigente si mette in ferie. Da quanto si apprende dai più stretti collaboratori pare che non abbia alcuna intenzione di tornare in Asl, almeno fino a che al comando ci sarà Scoppa, e che stia valutando le offerte di altre aziende. Al suo posto è stata nominata portavoce la segretaria particolare del commissario, Anna Tagliaferri.
Non è l’unica “epurazione”. Un paio di settimane fa è toccato al direttore sanitario dell’ospedale San Gennaro, Mario Iervolino, sindaco di Ottaviano, che è stato trasferito al distretto di Chiaia dell’Azienda sanitaria locale. Nella comunicazione al dirigente si parlava di presenza non sufficiente presso un presidio complesso come il San Gennaro. Veniva tirato in ballo il doppio incarico di sindaco e direttore sanitario. Doppio incarico che, però, c’era anche al momento della nomina ai vertici del nosocomio del rione Sanità.
Il malcontento serpeggia anche nelle stanze del Frullone. I collaboratori parlano di atteggiamento troppo rigido: «A volte è necessario mediare, ma questo succede raramente». Altri ricordano che tutto ciò che viene comunicato all’esterno, spesso non corrisponde alla realtà; che imprese annunciate, non sono mai state realizzate: non ultima il triage del Loreto Mare. Ma nessuno ha il coraggio di parlare pubblicamente: «Rischiamo provvedimenti disciplinari, adesso può parlare solo lui».
da il Giornale di Napoli del 26 aprile 2012
«Lavora poco», il commissario Asl silura il portav
Trasporti, il Comune chiama un superconsulente
Se il consigliere comunale viaggia sullo scassone
Saviano, l’antimafioso qualunquista
Saviano non è uno scrittore, non è un giornalista, non è un eroe: è un partito, un’idea, una fede. Lui incarna l’antimafia. È il simulacro di tutte le forze che si oppongono alle organizzazioni criminali: la polizia, i magistrati, le associazioni, i giornalisti, la gente comune. Di ognuna di queste categorie non esprime neanche un’abilità. Non indaga su nulla, non rivela niente di nuovo e di inatteso, non denuncia chi non è stato mai denunciato e non scrive come uno scrittore. Non è Falcone, non è Siani, non è Grassi e non è neanche Sciascia.
Questi uomini, ma ce ne sono tanti altri, erano completamente immersi nella faccenda, avevano annusato un mafioso, ci avevano parlato e con il loro lavoro quotidiano hanno contrastato il crimine organizzato: rivelando, arrestando, denunciando. Molti, troppi, sono stati ammazzati per questo. C’è un carattere che unisce tutte queste persone, che le rende uniche, moralmente al di sopra delle altre: quello di essere state fino in fondo quelle che erano: un magistrato, un giornalista, un imprenditore. Non erano soldati votati alla guerra. Non avevano neanche chi, nella battaglia, coprisse loro le spalle. Erano uomini che si sono trovati davanti ad un problema, che l’etica legata al proprio mestiere imponeva loro di affrontare: la mafia. Ci sono uomini con le spalle larghe, a volte sono solo dei padri di famiglia, che sono, nella loro semplicità, nella loro spontaneità, un esempio: per il bene possono sacrificare anche la loro vita. Il male e il bene si rappresentano così, banalmente. Saviano non rientra, per costituzione, in questa categoria di uomini. Lui è al di là del bene del male. Se non esistesse la mafia, non esisterebbe.
Tutta la sua fortuna è costruita attorno ad un’unica opera, Gomorra. Un romanzo costruito su elementi di verità collezionati dai ritagli di giornali, ma pieno di immagini letterarie. E’ anche un istant book, poiché viene pubblicato dopo l’esplosione della faida di Scampia: la guerra di camorra più sanguinosa dai tempi della Nco di Raffaele Cutolo. In quel momento Napoli era sui giornali di tutto il mondo per i morti ammazzati. Il libro giusto al momento giusto diventa un caso letterario. In fondo, in quel momento era l’unica opera che riuscisse a raccontare cosa stesse accadendo in città. E che desse, nella sua buona costruzione, leggera ed efficace (più vicina alla tradizione del romanzo d’inchiesta americano che a quella italiana), un quadro ampio del fenomeno. Era e rimane, però, un romanzo. Un testo dove domina la finzione e che non ha altre pretese se non quella di essere un racconto.
Prima di questo romanzo Saviano era un ragazzotto della provincia casertana a Napoli per studiare filosofia. Aveva cominciato a masticare di camorra con Amato Lamberti all’Osservatorio, nel periodo delle pubblicazioni settimanali sul Corriere del Mezzogiorno. E di camorra ha cominciato a scrivere su vari giornali. Del fenonemo era un semplice osservatore, uno che voleva conoscere. Ma l’idea del giovane e intraprendente aversano era quella di scrivere un romanzo. Non poteva fare altro, del resto, non poteva scrivere, ad esempio, un’inchiesta. Non aveva gli elementi per farlo. Poteva, però, far conoscere a tutti quello che succedeva a Napoli e che nessuno, in fondo, riusciva a raccontare bene. La narrazione frammentata dei giornali locali è la vita che scorre, non è una storia. Il materiale, però, era lì per poter essere utilizzato e nessuno ancora lo aveva fatto. Forse perché tutti quelli che trattavano del fenomeno erano impegnati ad annusare il sangue e la terra. Saviano no, era in un luogo privilegiato quello dell’osservatore caduto nella grande città che lo sommergeva di stimoli.
Nasce così Gomorra, prima edizione da 5mila copie. Sul libro punta un colosso editoriale come Mondadori: qualche passaggio televisivo e arriva il successo. Ma il ragazzo di provincia, che ha intuito e scritto l’opera, subisce una strana trasformazione. Il tritaconcetti semplificatorio della comunicazione televisiva trasforma lo scrittore in un eroe, nell’unico uomo che ha il coraggio di raccontare la camorra. Non è così, ma un Paese senza guide morali, senza punti di riferimento, ha bisogno di simboli. È in questo momento, che in uno strano processo di disincarnazione, l’uomo si trasforma nella sua rappresentazione, lo scrittore si identifica con l’eroe. È quello che i media vogliono. Napoli è schiacciata dal racconto dei suoi mali e Saviano è l’augure di questo destino. Il sospetto delle minacce, poi, rende la finzione tremendamente credibile. Il fantoccio mediatico viene circondato da uomini veri: la scorta, magistrati, politici, giornalisti, i ragazzi delle associazioni. Lo scrittore diventa un divo, circondato da un pubblico fedele e ispirato dall’aura invincibile della superiorità morale.
Ma c’è una seconda fase della trasumanazione. L’eroe è anche social, e approfitta del suo pulpito privilegiato per parlare di tutto. Roberto interviene su qualsiasi cosa. Lo fa con lo stesso tono con il quale scrive di camorra, quello del romanziere. Alla morte di Taricone, più grande di lui di cinque anni dice: “Io e te compagni di scuola”. Parla di Maradona e ricorda “quando a Napoli si svuotavano le scuole” per vedere i suoi allenamenti (un’immagine assurda, che può immaginare solo un ragazzo di provincia, ma letterariamente affascinante). Sono alcuni esempi che la dicono lunga su come letteratura e realtà si confondano pericolosamente nelle sue esternazioni. Il qualunquismo è il carattere che distingue la profondità della sua riflessione. Ma quando parla di politica può diventare pericoloso. Il vate, dalla sua posizione, può condannare ed assolvere, prove o non prove. Lo può fare al di là delle aule di tribunale, delle leggi, di qualsiasi luogo istituzionale. Per questo la parola può diventare una minaccia anche per i giusti. Per questo quando Saviano si schiera con qualcuno è una minaccia per l’altro. Il rischio è che al male, al mafioso, non si opponga il giusto, ma l’antimafioso.
Spiaggia a Chiaia? Costa quanto la Coppa America
Il progetto di cancellare via Caracciolo prolungando la Villa Comunale e di realizzare una grande spiaggia non appartiene all’attuale amministrazione comunale. Il piano fu elaborato già nel 2001, undici anni fa, da un gruppo di architetti guidati da Leonardo Benevolo e vinse un concorso di idee bandito dal Comune di Napoli (il sindaco era Riccardo Marone). La Villa Comunale era stata ristrutturata da pochi anni e si stava ripensando ad una nuova dimensione del lungomare. Erano gli ultimi colpi di coda del Rinascimento bassoliniano. Poi, come per il resto, non se n’è fatto nulla, quell’idea è rimasta un’idea ed è finita in un cassetto. Nel pool di progettisti c’era Paride Caputi, per cinque anni assessore della giunta Iervolino.
Architetto, perché cancellare via Caracciolo?
«Napoli è una città di mare che non vive il mare. È separata, lontana, dal Porto. E via Caracciolo è un’autostrada che la divide dal mare. Gli unici collegamenti con questa bellissima risorsa sono i percorsi verticali da Posillipo».
Cosa avevate pensato di fare?
«Riconsegnare alla città le sue spiagge: quella di Chiaia e quella di Bagnoli. Quella napoletana è evidentemente un’anomalia da questo punto di vista».
Poi cosa è successo?
«Era solo un concorso di idee, il Comune non era obbligato a realizzare quei progetti. Ma era una cosa concreta, c’era un piano di spesa che si aggirava intorno ai 38 miliardi di lire. Per realizzarlo ci sarebbero voluti, insomma, circa 20 milioni di euro».
Quanto per realizzare le due tappe della Coppa America, praticamente.
«Non so quanto è costata la Coppa America».
Ora il Comune sta riprendendo l’idea. Ma non tutti sono d’accordo. Qualcuno, come Mazziotti, pensa che possa essere violato il disegno originario della Villa Comunale.
«È esattamente il contrario. Come dimostrano le illustrazioni dell’epoca, la spiaggia confinava con la Villa, per circa un secolo parco e spiaggia hanno convissuto. Se poi si pensa alla passeggiata reale, questa è rappresentata esclusivamente dal viale centrale. Il resto, le altre aiuole, gli altri spazi, si sono sviluppati disordinatamente».
La spiaggia però era dove si trova l’attuale via Caracciolo, mentre nel suo progetto l’arenile viene realizzato dove ora si trovano gli scogli.
«È una modernizzazione dell’antico disegno. Ma ricostituisce l’originaria realtà del quartiere, che prende il nome proprio dalla spiaggia. È uno dei connotati storici più importanti di quest’area. E poi c’è un altro aspetto importante: perché proteggere il muro borbonico con degli ostacoli rigidi come gli scogli? Non è meglio una spiaggia che ha la doppia funzione di riparare la struttura dalle mareggiate e di renderla, finalmente, visibile».
E per il traffico veicolare come si farà?
«Pressappoco come si sta facendo per l’attuale Ztl. Noi avevamo previsto di utilizzare come principali assi viari via Giordano Bruno, via Piedigrotta e la Riviera di Chiaia. Avevamo pensato a questa possibilità anche perché la linea 6 della metropolitana avrebbe dovuto alleggerire il traffico su quella strada».
E viale Gramsci?
«L’avevamo immaginato come il naturale ingresso della Villa Comunale ad Ovest, pedonalizzando totalmente la carreggiata centrale, in forma di rambla».
Ma senza scogliere come può crescere la spiaggia?
«Avevamo pensato di ampliare il porticciolo di Mergellina. Studi meteomarini dimostravano che in questo modo ci sarebbe stato un ripascimento dell’arenile. Inoltre, avremmo ottenuto anche un altro risultato: l’aumento dei posti barca».
A proposito di barche, cosa pensa delle opere realizzate per l’America’s Cup, in particolare della scogliera?
«Penso che la temporaneità non possa essere un criterio di realizzazioni di opere di questo genere. Bisogna sempre inserirle in un contesto più ampio, in un progetto più grande. Ci vuole un disegno stabile che non c’è».
La sua è rimasta soltanto una delle tante idee del Rinascimento di Bassolino, che pare adesso voglia riprendere il “rivoluzionario” de Magistris.
«Diciamo che di quelle idee e di quei progetti, del Rinascimento, è rimasta soltanto la pedonalizzazione di piazza del Plebiscito».
E le metropolitane.
«Ritengo che il progetti delle stazioni dell’arte rappresentino un’idea provinciale che non ha fatto molto bene alla città. Chi è che si mette a guardare delle opere d’arte in metropolitana? È un’assurdità che ha avuto dei costi enormi. Invece di presentare progetti faraonici avrebbero dovuto costruire una metropolitana funzionante. La metropolitana di Parigi è bella perché mi porta in qualsiasi luogo della città, perché è estremamente funzionale, non perché ha caratteri estetici rilevanti».
pubblicato sul Roma del 1 aprile 2012
Dopo l’America’s Cup, Coppa Davis a Napoli
«La Coppa Davis a Napoli? La sogniamo dal 1995. Ma ora ci sono tutte le condizioni per ospitare questo grandissimo evento internazionale». Il presidente del Circolo del Tennis, Luca Serra ha un obiettivo e sa che ora può essere realizzato: «Basta crederci», dice. Il suo circolo ospita la sede operativa dell’America’s Cup: «Con tanti circoli velici, hanno scelto il circolo del Tennis», scherza, ma sa che la Coppa America di vela ha ridato visibilità internazionale alla città e una chance in più per ospitare ancora un grande evento.
Dottor Serra, quanto costerebbe ospitare la Coppa Davis a Napoli?
«Trecentomila euro, un costo relativamente basso rispetto al grande ritorno di immagine. E poi è difficile immaginare una cornice migliore di questa».
Ne ha parlato con il sindaco?
«Lo farò al più presto, non possiamo perdere questa occasione».
Quali sono le procedure per aggiudicarsi una tappa del torneo?
«Bisogna affidarsi al presidente della Federazione italiana tennis, Angelo Binaghi, al quale dever arrivare una richiesta formale».
Napoli ha qualche chance di essere scelta tra le altre città italiane?
«Penso proprio di sì. Questo è un contesto unico, ineguagliabile. Vorrei ricordare che altre città sono state scelte nonostante abbiano offerto campi indoor, quindi assolutamente anonimi».
L’ultima volta a Napoli fu nel 1995, e fu dopo un altro grande evento internazionale: il G8. Pare che le condizioni siano adesso molto simili: c’è una città sotto i riflettori di tutto il mondo.
«Io ero nel consiglio di amministrazione del circolo. Fu una grande emozione. C’erano spalti per 5mila persone. La partecipazione della gente era incredibile».
Il circolo è pronto ad organizzare un evento internazionale come la Davis?
«Ogni anno, da 100 anni, organizziamo un torneo internazionale».
La pedonalizzazione e la riqualificazione di via Caracciolo rappresenta un punto a favore?
«Ci tornerà certamente utile. Da sempre si parla di progetti che riguardano via Caracciolo e quindi la possiblità che l’area della Villa si estenda fino al mare, questo ci vede pienamente interessati. Il nostro destino è legato anche alla progettualità urbanistica della zona. Spero che questa occasione dimostri come il Circolo del Tennis sia un’istituzione al servizio della città».
Cosa rappresenta per voi la Coppa America?
«Sarà una straordinaria occasione perchè il Circolo Tennis Napoli si metta al servizio della città. Quando Napoli ha chiamato ci siamo subito messi a disposizione, vogliamo dimostrare che la città con la partecipazione dei suoi circoli è in grado di organizzare eventi di alta qualità come le grandi città europee».
I rapporti con il Comune, però, sembrano essere un po’ tesi. L’assessore al Patrimonio più volte ha detto che bisogna ridiscutere dei canoni di fitto.
«I canoni possono essere certamente ridiscussi, ma è certo che una superficie sportiva non può essere considerata allo stesso modo di un immobile residenziale».
Quanto pagate ogni anno al Comune?
«Centomila euro».
L’intenzione di questa amministrazione è, però, quella di mettere a reddito il Patrimonio.
«Sono d’accordo. Ma la vocazione del circolo è la stessa dalla sua nascita nel 1905. Non penso si possa immaginare qualcosa di diverso».
Una struttura del Comune deve, però, essere aperta alla città.
«Ma questa è una struttura al servizio della città. Un esempio su tutti: da dieci anni offriamo una borsa di studio a 10 ragazzini con meno di 12 anni e in difficoltà economiche, uno per ogni municipalità. Poi, il mito del tennis come sport d’élite è ormai tramontato. Lo dice la provenienza dei campioni emergenti, che arrivano da Paesi prima esclusi dal circuito delle competizioni internazionali. Lo dice il fatto che uno degi nostri elementi migliori, Giancarlo Petrazzuolo, viene da Secondigliano».
pubblicato sul Roma del 3 aprile 2012