Raffaele La Capria dice sul Corriere della Sera che Napoli non è solo monnezza, ma anche bellezza. Menomale che ce lo ha rammentato. Lui, dice, se lo è ricordato perché in città c’è ritornato per pochi giorni. E se non fosse tornato, cosa avrebbe pensato? Che Napoli è diventata una enorme discarica. Per fortuna lo scrittore è stato rassicurato dalla persistenza del Museo di Capodimonte, dell’Archeologico e da un mucchio di chiese barocche che fanno ancora la loro ottima figura nel caos urbanistico. Poi ci racconta della Bellezza, con la “b” maiuscola, della città. Cita Benjamin, Douglas, Guarini, non cita Galasso, seppure ne riprende un tema importante come quello della promiscuità. Poi si autocita, come al solito. Parla di armonia perduta. Ne parla ininterrottamente da quando ha scritto quel libro, l’Armonia perduta, appunto, una riflessione su Napoli, e sul suo romanzo “Ferito a morte”, che poi ci ripropone, senza vergogna, in diverse salse, ormai da 25 anni. Questa autoreferenzialità stucchevole rende il suo discorso lontano dal mondo. La Capria non parla più di Napoli, parla del suo libro del 1986, che parla di un altro suo libro pubblicato nel 1961. La verità è che Napoli non ha più bisogno di intellettuali riciclati e senza mordente, che della riflessione sulla città hanno fatto la loro fortuna, emigrando al Nord, chiaramente. La città non ha bisogno di un ottuagenario esistenzialista della seconda ora che ricicla idee e stereotipi assecondando il mercato del libro. Il commerciante sdoganatore del “local” ha fatto il suo tempo e la sua fortuna. Ora vorremmo leggere sul Corriere della Sera l’elzeviro di un intellettuale vero. Uno che riesca ad indicarci un orizzonte. E che ci dica qualcosa di vero sulla nostra vita, sulla bellezza e anche sulla munnezza, se necessario.